mercoledì 13 ottobre 2010

no logo- una serata (inaugurale) diversa!

                                             MERCOLEDì 20 OTTOBRE
                                    CA’ BIANCA, VIA LODOVICO IL MORO, 117


-Siete a Barcellona, a Parigi, Londra, Berlino. Entrate in un locale, un pub, in un negozio e vi dite: "Ma perchè da noi no?!"
Ecco. Questo è no logo.-

Vi invitiamo ad una serata diversa, con una diversa concezione di intrattenimento.


INTRATTENIMENTO CULTURA


ciclo tematico: Milano, musica e parole


-esposizione fotografica: Stefano Soliano - "Passing by- Questa Milano a me piace"

-musica: The Jokes
-band ospite: SMP (ovvero- Sublimi Maestri Perfetti)
-proiezione: cortometraggio "Quei giorni insieme a te"
-presentazione libro: "Ada" di Elisabetta Setnikar
-reading di poesia
-lettura e discussione di articoli (da 'Internazionale')
-recitazione
-proiezione di filmati originali con colonna sonora live
-Vincenzo Parisi solista a pianoforte

ospite: Professor Ambrosini (docente alla facoltà di Scienze Politiche, esperto in fenomeni migratori)- intervista interattiva col pubblico.


prezzo: 15€

-ore 20.00- 21.00 aperitivo con una consumazione e buffet
per chi arriva alle 21.00 (ORARIO DI INIZIO DELLO SPETTACOLO), il prezzo rimane lo stesso, ma per due consumazioni senza buffet


parcheggio del locale accessibile a tutti


per ulteriori informazioni
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Giulio Rubinelli

Direttore Artisico


ROX- I don't believe

"Passing by- Questa Milano a me piace" esposizione fotografica di Stefano Soliano


L’abitudine a guardare, ci impedisce spesso di vedere.
Vivere poi in un dato luogo ci porta sovente a darlo per scontato.

La nostra sensibilità dunque rischia di galleggiare sulla superficie del quotidiano, come una macchia d’olio sulla superficie del mare e di perdere così la distinzione e la comprensione dei particolari e dei significati che rendono la vita interessante e a volte degna di essere vissuta.

Milano è una città facile da guardare, ricca di immagini, di movimento, di grafica e di fotografia, di graffi e di colori in vendita. Accanto al piano di  questa confusione facile, credo però che ci sia un piano più complesso, più nascosto, difficile da leggere, ma vero e vivo, un piano che a questa confusione conferisce un’anima.

E’ questo il piano che guardiamo senza dar segno di vederlo davvero.

Questa mostra è composta da fotografie scattate di notte, correndo in moto per le vie della città, scattate mirando senza inquadrare, così come spara Tex Willer.
Scattate ogniqualvolta mi sembrava di scorgere per un attimo qualcosa di più nascosto.

Sono immagini mosse e sfocate, grumi di colore sul nero, strisce di luce che si inseguono e danzano sospese, leggère.
Volevo capire se, la velocità dello sguardo, quella che dovrebbe impedirci di vedere, potesse, indirizzata in modo nuovo, consentirci invece di penetrare sensi e letture più profonde.

Dal lavoro di qualche anno sono nati un centinaio di scatti, di cui qui ne trovate esposti poco più di venti che rappresentano, almeno per me, il primo passo verso la comprensione di quel piano più nascosto e complesso, che si avvicina all’anima della mia città.

lunedì 11 ottobre 2010


cosa manca?

La verità è che questa vita andrebbe vissuta al contrario..

"Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così il trauma è bello che superato.
Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio.
Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono.
Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d'oro.
Lavori quarant'anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè.
Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo. "

Woody Allen

Minoranza

domenica 10 ottobre 2010


cosa manca?

Tutta colpa di...


Vi siete mai chiesti chi ci sta dietro? Quale persona o entità misteriosa giostra le danze della nostra società? Quando ci travolge una crisi economica, quando crolla un governo, quando si modificano le relazioni politiche tra i paesi. Chi sta dietro a quegli scandali all’interno delle élite amministrative, chi organizza gli eventi che cambiano il corso della storia. Diciamo spesso: “Non è Obama che decide, non è Berlusconi. C’è qualcuno sopra di loro che ha il controllo, loro sono solo burattini del sistema.”
Chi o cos’è il sistema? Domande complesse che non possono che rimanere senza risposta. O forse no. Dipende se siete abbastanza curiosi. Qualcuno disse “La storia siamo noi.” Questo assunto non può che cadere in contraddizione con i nostri dubbi, perché implica il fatto che la storia non la determiniamo noi persone, bensì una forza superiore, una mistica istituzione segreta che muove ogni cosa. Eppure cocciutamente voglio provare a convincermi che quella famosa frase “La storia siamo noi” sia una dichiarazione oltre che azzeccata anche profondamente esplicita. Se la storia siamo noi, allora dobbiamo iniziare a guardarci attentamente intorno, perché vuol dire che il famoso burattinaio si aggira per la società civile. Potreste svegliarvi una mattina e cominciare a scrutare i volti delle persone che incontrate. Il panettiere Flavio. Ottima persona, sposato con figli, insomma anonimo. Troppo anonimo. E se fosse lui? O forse il barista che vi serve il caffè a metà mattinata. O addirittura vostro padre. Un ruolo talmente importante e delicato richiederebbe la massima copertura ed un alibi perfetto. Perché non la nonna? La nonna… non ve la racconta giusta la nonna. È cieca veramente? Ha davvero bisogno di quel bastone o quando non guardate si fa i gradini di corsa tre a tre? La nonna.
Io ho un amico che si chiama Martin. Suona il violoncello e studia con me in Statale. Fa un po’ quello che viene gli richiesto e un po’ quello che gli va di fare, come quasi tutti. Martin. Non mi ha mai convinto questo ragazzo, con la sua faccia bonaria, gli occhi smarriti da cerbiatto in mezzo all’autostrada, la passione per la musica. Parla poco, ottimo ascoltatore e buon amico. Non mi torna. Martin da sei anni mi nasconde qualcosa. Dove va Martin quando finiscono le lezioni? Va davvero a casa a esercitarsi con lo strumento? Com’è casa di Martin? Non ci sono mai stato.
Mi passano davanti agli occhi immagini agghiaccianti del mio amico fra Mao e Kissinger, mentre rovista al Watergate Hotel, mentre parla con Aldo Moro durante la prigionia e prende appunti, in Vietnam a colloquio con Ho Chi Minh. Vedo Martin dietro alle quinte di Woodstock in trip di acidi, con Mastella a pensare a come far cadere il governo Prodi. E se avesse pianificato lui la resistenza a Stalingrado? Sotto la tunica di Bin Laden. O incappucciato mentre impicca Saddam. Oddio il mio amico ha fatto fuori la dinastia Kennedy e il Dottor King!
Vi chiederete, ma se anche così fosse, come sopporteresti che uno dei tuoi migliori amici sia coinvolto o addirittura abbia pianificato i più turpi avvenimenti del nostro secolo? Risposta: il giorno che lo dovessi cogliere in flagrante nella sua stanza dei bottoni gli farò una bella lavata di capo. In fondo perché dovrebbe avere organizzato solo stragi e rapimenti? E se avesse scoperto lui il vaccino contro la tubercolosi e le tazze del cesso riscaldate?
Mi è costato molto coraggio scrivere questo articolo. Potrei pescare un granchio colossale e mettere così a rischio anni e anni di una splendida amicizia. Questo ragazzo altoatesino infatti non dovrà mai leggere queste righe e voi, vi prego, se lo doveste incontrare, fingete che in realtà non sia l’intelletto pianificatore del secolo scorso, fingete di non avere di fronte il Grande Burattinaio, la mente cospiratrice di un genio divino. Lui è e rimarrà Martin, perché ricordiamoci che morto un Papa se ne fa un altro.
“M” è solo la catena di un ingranaggio ben più ampio.
La storia siamo noi, cari lettori. E forse Martin porta fin troppo bene i suoi novantacinque anni.

Martin dimmi solo una cosa, solo una per Dio, -dove cazzo hai nascosto Adolf Hitler e Jim Morrison?

Ogni riferimento a luoghi e persone è puramente casuale. Forse.

Giulio Rubinelli 

venerdì 8 ottobre 2010

kiwi!

Canto degli Ultimi

Invisibilità. Ovvero: non visibilità. Su questo frangente noi milanesi siamo tradizionalmente dei portenti. La nebbia nella bassa padana è da sempre oggetto di scherno in tutta Italia e ci rende agli occhi del resto della penisola gente burbera, grigia e infelice. Ormai la nostra amata-odiata nebbia tuttavia si fa sempre meno vedere, sostituita da una ben più densa nuvola gassosa: lo smog. Ma non è di questo che voglio parlare. Bensì della nostra non visibilità. Milanesi, popolo indurito dall’industria e dalla moda (che avrebbe potuto e dovuto fare di più per la comunità), dal consumismo fine a se stesso e dalla corruzione, ma soprattutto: cieco. Ci hanno accecato. Con tutte le loro pajettes, luci, culi e balletti. Con i loro soldi.
E ora ci sembra di vivere in una dimensione monocromatica, nella quale non si può nemmeno più distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. Atei e apolidi in una Milano che non crede in se stessa, non più. E in chi ci abita. Ma chi abita Milano? Giovani? Anziani? Sì, forse, ma guardate meglio. Imprenditori? Banchieri? Politici? No, state guardando alle categorie, io parlo delle persone vere e proprie. Silenzio. Sicuri di non vedere nulla? Esatto. Nebbia. È come quando ci coglie inaspettati in autostrada. Corriamo, ma non possiamo che intuire solamente la direzione della nostra vettura. Fermarsi a questo punto sembra la soluzione migliore. Ma Milano, e i milanesi, non si fermano. Anzi, accelerano. Hanno un appuntamento inderogabile al quale non possono mancare e il gioco vale la candela. La macchina sobbalza. Abbiamo investito qualcosa. O qualcuno. Sarà stata una bestia. Non possiamo fermarci solo per uno stupido animale. Tiriamo avanti. E sull’asfalto alle nostre spalle resta un grosso conglomerato sporco di stracci.
Ha due gambe, due braccia, un naso e una lunga barba. Come chi guidava la macchina. Sta lì, disteso. Agnello sacrificale del progresso e della corsa all’oro con un rivolo di sangue che gli cola dall’angolo della bocca. Eppure ancora respira. Dolcemente, con accenti rochi e una grammatica celeste. Sì, è una persona. Non l’avevamo visto. Siamo sicuri? Era lui l’invisibile o noi i ciechi? La verità sta sempre in mezzo. Possibile che ci siamo dimenticati di chi è uomo come noi? Di chi vive, respira, gioisce, soffre come facciamo anche noi?
Vi regalo un’immagine, fatela vostra. Diluvia a Milano. Di quei diluvi che solo voi, miei concittadini conoscete. Che paralizzano la città, il traffico, che ci regalano, in tutto il loro frastuono, una pace e un silenzio ai quali non siamo abituati. Che ci costringono a parlare sotto ai portici con altre persone con le quali non sareste mai entrati in contatto in tutta la vostra vita, a sdrammatizzare sul tempo, in attesa che spiova. Un uomo, solo, in un angolo. Seduto sul cartone, al limite del muro d’acqua. Si raggomitola in se stesso proteggendo ciò che gli resta dalla tempesta. Ci parlerete? Non è necessario. Ma lo vedrete? Lo vedrete davvero? Quella miseria vi toccherà? Perchè a Milano quando piove c’è una gran luce, non è mai buio, come non è mai buio di notte. E anche quella fatichiamo a vederla. Allora rispondetevi: è lui a essere invisibile o voi a non vederlo? Non è un’accusa, ma una presa di coscienza sulla più basilare delle emozioni: la compassione. Questa parola con la quale ci battiamo il petto in chiesa ogni maledetta domenica.
Nel vostro cuore, dove rimangono gli ultimi? Perché questo sono- non invisibili, non senzatetto, ma più semplicemente sconfitti. Come in una gara che evidentemente qualcuno ha truccato. Cosa meritiamo noi più di loro per stare ora, nel nostro ufficio o in casa a leggere Arcipelago mentre fuori diluvia? E intanto lui protegge il suo cartone. Certo, direte io cosa ci posso fare? La vita mi ha premiato, la sorte. Eppure io mi dico di sinistra e non credo nella fortuna. Credo nell’uomo in quanto artefice del suo destino, in quanto macchina pensante, realizzatrice dei propri sogni. Credo nelle opportunità e in chi non ne ha avute, ma non in una situazione stantia e irrimediabile. Chi decide chi ha diritto a un’opportunità? Non credo in Dio, quindi il cerchio si restringe.
La soluzione è per me liberarsi da questa insulsa cecità e tornare a vedere chi ci sta intorno. Rallentare questa insensata corsa e soffermarsi su uno sguardo prolungato alle proprie spalle. Recitava una delle più popolari campagne elettorali dell’ormai Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “Aiutare chi è rimasto indietro.” Ora, non so bene a chi si riferisse il Cav, ma per me “chi è rimasto indietro” sono coloro che non hanno più il fiato per correre o i mezzi. Allora fermiamoci. Prendiamoci anche un solo istante per voltarci da questo quadro impenitente di glorie e stucchi dorati, a guardare chi ci siamo lasciati alle spalle. Soccorriamo chi necessita e forse, portandoci tutti sullo stesso livello, saremo ancora di più, ancora più forti e correremo più veloci, mano nella mano con chi era ultimo. La fortuna, per chi ci crede, gira. Io preferisco pensare che siamo capaci di una tolleranza e una solidarietà tali da poterci sorreggere a vicenda affinché, sempre per chi ci crede, “gli ultimi saranno i primi” e fuori potrà tornare a splendere il sole, per tutti.

Giulio Rubinelli

giovedì 7 ottobre 2010

chi è no logo?

"Ada" di Elisabetta Setnikar

Quando leggo “Ada” mio nonno è in procinto di abbandonarci. Un giorno si è presentato a casa ed era tutto giallo. Come un Simpson. Era il fegato. Sarà per questo che mi ha colpito. Sarà che le persone vanno e vengono, ma quando si spengono non le riavrai mai più. E di persone ne ho perse tante. Dopo un po’ riesci anche a farci il callo. Se così vogliamo dire. E quando poi ci fai il callo riesci a riflettere. Non le rivedi nel cuore della notte a fianco a te nel letto, affacciate al balcone di casa quando torni la sera, nel volto di ogni passante. Te ne fai una ragione insomma. E magari riesci anche a scrivere. Ma di tempo ne passa. E siamo tutti uguali. Non dobbiamo essere scrittori professionisti, intellettuali o giornalisti. Di fronte alla morte siamo tutti dei grandi artisti. Nella memoria, siamo tutti grandi artisti. Ma ci vuole coraggio, e tanto, per ricominciare. Perché scrivere di una persone smarrita è come forzare una ferita finalmente rimarginata e ogni parola diventa un dolore incommensurabile. Scrivere è lo stadio finale.
Elisabetta Setnikar ha compiuto questo passo. Ha riaperto quella ferita e ne ha fatto un libro. Ha voluto condividere con qualsivoglia lettore quel suo dolore splendido, fatto di bellezza, armonia e piatti deliziosi. Ha scritto un romanzo biografico della sua esperienza. Dei suoi affetti. Dei suoi ricordi di bambina. Ha scritto un libro su sua nonna. Un libro semplice, genuino che profuma di pane e vino rosso. Ne è intriso. Nelle descrizioni delle foto, negli echi dei corridoi in penombra di case che non esistono più, di luoghi che non ritroverete se non nella memoria delle persone di chi c’è stato, di chi ne ha accarezzato le superfici, gli angoli ora troppo impolverati. Quella che ci viene proposta è un’opportunità. L’offerta di ritornare in un mondo perduto, lontano ma al contempo vicinissimo, fatto di essenzialità, al di fuori del superfluo che oggi ci sommerge e soffoca. Ecco, essenzialità è il termine intorno al quale verte l’intero libro dell’autrice milanese. Essenzialità dei luoghi, delle voci, dei respiri, dei mobili, delle parole, dette o meno, degli amori che sempre saranno gli amori  per l’eternità.
E poi il distacco.  Come il risveglio da un bellissimo sogno. Si cerca di ricordare, ci si spreme le meningi e si prova a richiudere gli occhi, a imporsi il sonno per tornare là, in una dimensione parallela e  astratta. Ma invano. Allora si cerca di ricostruire, da principio. Il diario di un sogno. Con protagonisti che per una notte ci sono appartenuti e che non saranno mai più nostri, ma che sempre ricorderemo con un sorriso. Semplice ed essenziale, come un sogno.

Giulio Rubinelli

"Quei giorni insieme a te"


Un cortometraggio di Marco Oriani, Giulio Rubinelli, Lorenzo Cervasio, Lorenzo Grondona.

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Signor giudice Libertà


Sì Signor Giudice. Ho ancora qualcosa da dire.
Che ancora non mi posso che togliere lo sfizio di uno solo commento a questo processo. Anzi, manco del processo vorrei parlare. Ma di voi. Che ladro mi giudicate e a essere ladro mi avete insegnato .
Sì e non faccia finta di niente. E neanche lei avvocato, che ride sotto i baffi per la parcella che già legge dietro alle mie sbarre. Che la libertà mi sono giocato. Perché ammetto di avere condotto una vita disonesta. Disonesto tra i disonesti. Che ammetto di aver rubato. Sì, a chi è più ricco di me. Perché io non sono mai stato idraulico e mai ho studiato, signor avvocato. Come voi. Che tenete famiglia e una bella casa. Come chi vi costringe ad essere ciò che siete, servo di un sistema che vi permette di guadagnare sulle spalle di chi è stato disonesto e più ricco di voi. Forse non di soldi, ma di emozioni, di verità e semplicità. E in fondo forse io e lei facciamo lo stesso mestiere. Perché io niente ho. Mai avessi avuto la soddisfazione di tenere da parte un centesimo per realizzare i miei sogni. Che ho rubato è vero. Ma perché signor giudice, chi siede in parlamento non ha forse rubato? E qui direte- casca nel banale. Son buoni tutti a tirar fuori questo discorse in fronte alla forca. E invece io questo discorso ve lo voglio fare. Perché non hanno forse rubato le grandi firme delle vie dei ricchi che vendono ai ragazzini vestiti da migliaia di euro? Non mi hanno forse tolto la dignità di essere padre e di negare ai miei figli la possibilità di essere come tutti gli altri bambini e di non venire presi in giro dai compagni? O la mia dignità di marito. Che non si è potuto togliere lo sfizio di una pelliccia alla propria signora, come voi alla vostra. L’invidia regola questa società signor giudice. E non è una dote innate, l’invidia. Si insegna. Con la violenza. E io mi sento violentato dall’invidia e da voi che me l’avete insegnata. Al consumo al quale ci avete sottoposti che non avete che da lamentarvi che le carceri son troppo piene e che ci vuole una legge. Che ci vuole un permesso, una  regola una finanziaria, ma che c’avete?! Per il criminali tenete sempre tanto posto. Ma per i criminali che peccano d’invidia. Perché ai criminali che già hanno tutto non imponete la sbarra come a me. A loro tutto è permesso perché invidiati e non invidiosi.
Che spero un giorno mi possano invidiare ciò che loro non avranno mai. La tranquillità. Un tramonto tra le sbarre, la libertà vera di non dover rendere conto più a nessuno. Della vecchiaia. Del tempo perso e delle occasioni sfuggite. Di stare fermi. In un punto. Senza stare a correre dietro al profitto e cacce alle streghe. Perché più potere si ha e più si teme di perderlo;  e di morire. Si ha paura. Io signor giudice quella paura non ce l’avrò mai e spero che anche in punto di spirare si possano almeno immaginare l’impiccagione di colui che fu invidioso alla finestra di una cella. Nella solitudine della propria libertà.
E lei signor giudice Libertà che quel nome porta a vessillo su targhetta cromata sotto quelle parole di ignominiosa falsità, si guardi allo specchio e si ripeta il capo d’imputazione che come dicevo non ha più che da lamentarsi delle carceri che son piene d’invidiosi.

wish you were here- radiohead cover